mercoledì 25 luglio 2012

IL CARRETTO FANTASMA

Un'amica del gruppo Facebook mi ha fornito questo racconto, accaduto nel quartiere dell'Acquasanta. La ringrazio e vi auguro buona lettura...
"I racconti ru zù Anciluzzu"
Una volta, avere una mucca da latte significava avere una fonte di guadagno.
Dovete sapere che tempo fa Palermo pullulava di piccoli allevatori di bovini perché il latte essendo un alimento fondamentale per l’uomo è un liquido abbastanza redditizio e facilmente commerciabile e quindi faceva guadagnare bene chi aveva anche tre o quattro mucche. Mio padre era uno di questi piccoli allevatori e sino alla fine degli anni 50 guadagnava bene; ma poi ahimè, arrivò il boom economico ,il latte veniva portato nelle fabbriche del nord Italia e confezionato in bottiglie e contenitori di cartone e la gente trovò più pratico comprarlo nelle salumerie o nei supermercati, e il mestiere del lattaio andò a poco a poco scomparendo perché non si ricavava più niente e i soldi servivano più per le spese di mantenimento per il bestiame che per il sostentamento della famiglia. Mio padre esercitò tale mestiere fino alla fine degli anni 70 e poi vendette tutto e si ritirò in pensione. Molti poeti hanno scritto delle poesie intorno alla figura del lattaio descrivendolo “allegro” che portava il latte ai bambini, che al mattino allietava le strade con l’arrivo del trillo della bicicletta e i contenitori pieni di latte. Ma anche dipinti e raffigurazioni di scene campagnole, ritraevano il lattaio che tira il suo carretto pieno di bottiglie di latte. Ma non tutti sanno che non era una cosa semplice fare il lattaio perché era un mestiere pesante e faticoso che comportava anche dei sacrifici sia per la stessa persona ed anche per il resto della famiglia. 
Mi ricordo che mio padre si alzava dal letto all’alba quando ancora in cielo non compariva la prima luce .La prima cosa che preparava era il caffè e non c’era sveglia migliore del brontolio della caffettiera che “sbuffava“ riempiendo e profumando l’aria con l’armonia del suo intenso aroma e che nel frattempo annunciava ufficialmente l’inizio di un nuovo giorno. Mi inseguiva fin sotto le coperte quel profumo e mi dava un dolce risveglio .Poi chiamavo mio padre e gli dicevo se me ne poteva portare una tazzina, ma poi non c’era neanche il bisogno di chiamarlo perché lui ce lo serviva tutte le mattine il caffè nel letto, senza bisogno di chiederglielo.
Prima di scendere le scale per recarsi al lavoro ci dava un bacio ciascuno e andava via. Ed io mentre ero ancora rannicchiata sotto le coperte sentivo il rumore dell’accensione della motoape e mio padre che andava via perché c’erano le mucche che lo aspettavano ed esigevano di mangiare e di essere munte. Era molto importante mungere bene le mucche, perché se del latte rimaneva nelle mammelle poteva provocare un'infiammazione, e allora bisognava chiamare il veterinario. Le mucche dovevano essere ben curate ,si dovevano cibare con erba fresca, fieno, semola e la “canigghia “ ovvero la crusca che si ricava dalla macinazione dei cereali. 
Particolare attenzione dovevano ricevere quando partorivano il loro vitellino perché ci voleva l’aiuto della mano dell’uomo . E a proposito di questo, voglio entrare nel merito di questa storia che appunto l’ho voluta intitolare “Il carretto fantasma“.
Mio padre era un grande narratore ,non aveva fatto mai un giorno di scuola ma quando raccontava certi episodi sapeva catturare l’attenzione di noi figli che ci appassionavamo a tali storielle ed episodi che riguardavano soprattutto la sua vita. Una sera ci raccontò un episodio che ci turbò e ci stupì.
Era giovane e aveva circa 28 anni, quando una sera dovette coricarsi in stalla per via di una mucca che doveva partorire. Aveva alle sue dipendenze un ragazzo di 18 anni di nome Cesare, ma mio padre lo chiamava in maniera vezzeggiativa “Cesarino“ visto la giovane età. Erano le otto di sera e la mucca era agitata ma non dava ancora segni di essere pronta a partorire, quando mio padre disse a Cesarino di andare a cenare a casa e che quando poi ritornava se poteva portare dei ceri visto che la nottata a quanto sembrava si prospettava lunga e di candele ne era rimasta una sola.
Cesarino prese il carretto di legno trainato dall’asino e ritornò a casa per desinare. Mio padre aveva portato con se due pani, un po’ di olive e un fiasco di vino rosso. La candela mandava una luce fioca...
Stava per addentare il primo pane quando improvvisamente si sentì scoppiare fuori un temporale. Lampi e tuoni sinistri, pioggia, grandine, insomma il diluvio.
Ecco che improvvisamente si udì il cigolio di un carretto che andava verso la stalla. Impossibile che Cesarino fosse già di ritorno, erano appena passati dieci minuti dalla sua partenza! "Forse sta ritornando per il forte temporale che gli impedisce di tornare a casa ?" - pensò mio padre.  
Il rumore intanto si faceva più intenso. "Ma è un carretto vuoto".
"Come facevi a sapere che si trattava di un carretto vuoto se non lo avevi visto ?" domandammo intelligentemente noi figli interrompendo il suo racconto. Nostro padre rispose :”E' facile capire quando un carretto è vuoto, dal momento che quanto più è vuoto tanto fa rumore..."
Preoccupato, spalancò la porta della stalla e con suo grande stupore vide che regnava un assoluto silenzio, le stelle brillavano nel cielo e la notte era calma e serena! Non c’era alito di vento!!! "Quel silenzio mi piacque" -  raccontò mio padre - “mi dava un senso di pace !”.
Santo cielo ! E allora cosa era stato un sogno ad occhi aperti? Quella tempesta, quei tuoni, il vento etc, da dove erano provenuti? E il cigolio del carretto ? "Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva sentirne il canto"...
Chiuse nuovamente la stalla e senza scomporsi si sedette per mangiare il suo pane. Mentre il silenzio regnava assoluto e dominava le tenebre, verso le ore 22, l’oscurità veniva squarciata dall’ululato impetuoso del vento che sembrava fosse un lupo e soffiava pesante, duro da sopportare e sembrava avanzasse a passi pesanti. Udì quindi il rumore delle ruote del carro e da uomo forte e coraggioso spalancò la porta e vide nuovamente che il silenzio faceva da padrone. Che fossero anime dannate ?!!!
Ho capito” - pensò mio padre - ”stasera gli spiriti burloni vogliono giocare con me“. Ed allora gridando disse : ”Sentite qua... potete fare tutto il fracasso che volete, tanto non mi mettete paura“ e richiuse la porta.
Si calmarono ! “Ci vonnu l’agghi pu vicinu“. Verso le ore 22,30 arrivò Cesarino. Mio padre non fece parola dell’accaduto perché essendo molto giovane, Cesarino ne poteva rimanere impressionato. La notte trascorse lunga e tranquilla e verso le ore 4 del mattino la mucca Carolina (questo era il nome che le aveva dato mio padre ) decise finalmente di partorire il suo bel vitellino che mio padre battezzò “Ciccio“. Il vitellino all'inizio succhiava il latte della mamma, ma non lo beveva mai tutto. Percio' mio padre doveva mungerla fino in fondo, proprio per evitare che le venisse un'infiammazione. Alcune settimane dopo la nascita, il latte era diverso da quello di ogni giorno: era di consistenza piu' leggero e aveva un colore un po' piu' giallo che mio padre chiamava “colostro “ e che poi ci faceva la ricotta e il formaggio che noi figli mangiavamo con golosità ! 
L'Acquasanta, dove si svolse questa storia

lunedì 16 luglio 2012

UN FESTINO DEL'700

Il viaggiatore inglese Brydone ci ha lasciato testimonianza di come era l'atmosfera del nostro Festino nel tardo'700. Il seguente post è tratto da un articolo trovato su internet...

Brydone viaggia di sera e all' alba per evitare il caldo, arriva a Palermo il 19 giugno 1770. La prima impressione è che la città sia bella, elegante più di Napoli, anche se ad accoglierlo sono "le membra squartate di parecchi banditi appese a dei ganci come tanti prosciutti". Ha percorso quindi la litoranea da Messina ed entra in città per Porta San Giorgio - in prossimità dell'attuale via Cavour - perché lì si appendevano i corpi dei condannati.
Fra un appuntamento e l' altro osserva i preparativi per il Festino, il tono è da gentiluomo scettico-ironico e Rosalia gli sembra "molto più venerata della Trinità e della stessa Vergine Maria". Nota che stanno erigendo un numero incredibile di archi e piramidi in legno da ricoprire con piccole lampade, gli assicurano che a distanza sembreranno tante piramidi e archi di fuoco. Lo spettacolo più bello lo offriranno il Cassaro e via Maqueda, illuminate da piramidi allineate sullo sfondo prospettico delle quattro porte cittadine: al centro della croce di strade, a piazza Vigliena, l'enorme luminaria si potrà abbracciare tutta con lo sguardo. Si stanno erigendo impalcature per i fuochi d'artificio, e un'enorme macchina chiamata il carro trionfale di santa Rosalia, montato su ruote ma gigantesco. La curiosità aumenta, Brydone dimentica l'ironia e si mostra impaziente. Il carro è già più alto delle case e continuano a innalzarlo, la cattedrale è tutta ricoperta di specchi inframmezzati da carta d'oro e d'argento e da una infinità di fiori artificiali, dal soffitto pendono enormi lampadari. Quando tutte le candele saranno accese, la chiesa sarà splendente come un palazzo delle fate o delle mille e una notte e la stessa regina delle fate non è mai stata più bella di Rosalia. Brydone ritrova un pizzico del suo umore scettico per chiedersi chi mai fosse quella santa così importante, ma ormai la trepidante attesa della festa impone di deporre ogni diffidenza. E il Festino non delude. Il 12 luglio alle 5 del pomeriggio inizia la sfilata, dalla Marina verso Porta Nuova. Preceduto da uomini a cavallo con trombe e tamburi, il carro trionfale - che somiglia a un luna park ed è più alto delle case - incede nella città-palcoscenico. In basso è una galea romana, in alto si dilata tutto ricoperto di alberi e fiori, occupa la strada da un lato all' altro
Ma riuscire a spostarlo è davvero una sfida. Trainato da cinquantasei muli che si muovono all' interno della galleria luminosa degli archi di fuoco, al suo interno ospita una folla di suonatori su varie fila e in cima c'è Rosalia trionfante. Brydone osserva che ogni finestra e balcone rigurgita di gente elegante, in strada ci sono migliaia di popolani. L'atmosfera è magica, la notte è così calma che tutte le fiammelle rimangono accese ed è difficile immaginare qualcosa di più splendido. La macchina per i fuochi d'artificio costruita in mezzo al mare è simile alla facciata di un palazzo ricco di colonne e fregi, ogni sorta di nave presente nel porto le è stata sistemata intorno sino a formare un anfiteatro. Le navi iniziano lo spettacolo scaricando le artiglierie di bordo, lanciando razzi e bombe che scoppiano sott'acqua. A un tratto tacciono, il palazzo s'illumina mentre sulla sua facciata i giochi di fuoco imitano i giochi d' acqua delle fontane. Come per magia lo spiazzo antistante s'è trasformato in giardino con alberi e fiori fiammeggianti, e quando si spengono anche il palazzo torna buio per un momento. Poi la facciata si scompone in una quantità di stelle e girandole e tutto sembra finito. Ma dal mucchio di macerie origina un'ultima assordante esplosione che riempie il cielo di luci, finendo di frastornare gli spettatori, e c'è ancora l'uscita del viceré sul mare su una galea tutta illuminata che sembra volare sull'acqua, con i settantadue remi che s'immergono seguendo il tempo battuto dalla piccola orchestra a bordo. 
Gli spettatori sembrano felici: "Mi sarei prosternato davanti a Santa Rosalia, benedicendola per aver fatto felice tanta gente", scrive Brydone ormai sopraffatto. La ragione impone di chiedersi perché mai a Palermo decidano di sobbarcarsi tante spese e lavoro per uno spettacolo che dura solo poche ore, ma "se questi sono talvolta i risultati della superstizione, vorrei sinceramente che ce ne fosse un tantino di più anche da noi". Lo scettico gentiluomo crede di non reggere all'emozione di altri quattro giorni di festa, minutamente descrive ogni intrattenimento: "I fuochi d'artificio sono ogni sera più superbi, Palermo è affascinante «al di là del verosimile e la cattedrale è tutta una fiamma di luce che supera tutte le aspettative". Brydone s'accorge che il suo stupore attira l'attenzione, "per i nobili era un gran divertimento vedermi così sbalordito". Scrive: "Non credevo l' arte umana capace di creare qualcosa di così splendido",e ha perduto ogni ironica distanza quando aggiunge che il Festino è la più bella festa d' Europa.
I Quattro Canti illuminati per il festino
L'odierno carro di S.Rosalia


martedì 10 luglio 2012

NOTTE DI MEZZA ESTATE...

Si è svolta domenica 8 Luglio l'ultima passeggiata del gruppo Palermo Nascosta. Il percorso, breve ma intenso, si è snodato dalla chiesa della Catena fino a porta dei Greci, con 5 tappe in tutto, senza un argomento base, ma con tutti gli spunti che i luoghi stessi potevano concedere. L'itinerario ha avuto inizio dalla splendida location della Catena, un posto definito "magico", tra l'antico porto della Cala e piazza Marina, dove si è parlato della leggenda legata al nome della chiesa, dell'importanza della Cala, del Castello a Mare e delle antiche porte della città che erano in quella zona. 
Poi la parte rialzata del corso Vittorio Emanuele, antica collinetta, con i suoi palazzi, come quello della Zecca, eredità di un'epoca in cui Palermo era capitale del regno delle Due Sicilie, il palazzo Steri e le vicende di Bernardo Cabrera e Frà Diego La Matina, poi ancora l'ex Hotel De France, con la tragica vicenda di Joe Petrosino, assassinato davanti Villa Garibaldi il 12 Marzo 1909.
Terza tappa, le Mura delle Cattive, il loro significato legato alle "captive" di un tempo, ossia le vedove che cercavano conforto al loro dolore (si fa per dire), la testimonianza dell'illustre visitatore Goethe, il quale s'imbattè nel "traffico" delle carrozze che andavano a passeggiare all'odierno Foro Italico e nell'immondizia che lasciata a marcire per strada, diventava polvere che invadeva i negozi (vedi anche post GOETHE E L'IMMONDIZIA DEL'700). E' stato lì, a piazza S.Spirito, anche il momento per ricordare e rendere omaggio al prof.La Duca, insigne storico palermitano, scomparso da qualche tempo, che risiedeva in questa piazza. Poi tappa al nuovo giardinetto della Cala, con le vicende della costruzione di Porta Felice, dedicata dall'allora vicerè Colonna alla moglie Felicia, nonchè la vicina fontana (oggi non più esistente) scolpita sull'immagine della amante del vicerè, quella donna Eufrosina, definita anche in un famoso romanzo, la "dama tragica". Una singolare corsa tra "donnine" è un gustoso aneddoto che ha divertito i partecipanti, così come la descrizione di ciò che accadeva, nottetempo, tra le carrozze nobiliari, scenario di gossip e furtivi amori d'una sera...
Ultima tappa del percorso a Porta dei Greci, dove si è parlato del Festino, in modo particolare con la testimonianza del viaggiatore inglese Brydone, che nel 1770 vide coi propri occhi il maestoso carro alto più di 20 metri e i giochi artificiali, sparati da una imbarcazione a qualche metro di distanza dalla riva, il tutto condito col fascino di quei tempi lontani. E poi ancora aneddoti su S.Rosalia e il mistero delle sue ossa, una processione della Kalsa d'altri tempi, e un divertente racconto ottocentesco sul proprietario del palazzo Forcella, che non riuscì a mettere le mani su un terreno di proprietà di un monastero di suore, nonostante l'autorevole "intervento" dell'arcivescovo Pignatelli (vedi post QUANDO LE RACCOMANDAZIONI SI RITORCONO CONTRO)...
Ringrazio come al solito Federico Ferlito, collaboratore e relatore, che con la sua verve ha divertito i presenti, e Filippo Leto, che ha dato una mano a noi relatori, parlando, in due momenti diversi, del Castello a Mare e dei carri del Festino...
Le foto seguenti, postate in ordine cronologico per le diverse tappe dell'itinerario, sono di Francesca E. e Antonella C., che ringrazio...
Chiesa di S.Maria della Catena, inizio del percorso
Il gruppo alla Catena
I relatori : (Da sin.) Federico,Fabio,Filippo
Il gruppo si avvia sulla "collinetta" del Cassaro
Sulla collinetta tra Diego La Matina e Joe Petrosino
Dalla collinetta alle Mura delle Cattive
Davanti alle Mura delle Cattive
Da piazzetta R.La Duca verso la Cala
Federico intrattiene il gruppo nel giardinetto della Cala
Si percorre il Foro Italico in direzione Porta dei Greci
Davanti a Porta dei Greci, tappa conclusiva del percorso

mercoledì 4 luglio 2012

IL LUTTO DI UNA VOLTA

[STORIE] Dalle pagine del Pitrè, nel suo libro "La vita in Palermo cento e più anni fa", vediamo come si affrontava la questione relativa al lutto a quell'epoca iniziando dal bando del vicerè in proposito :
«Per le morti delle persone reali gli uomini possano portare le giamberghe nere di panno o bajetta, ed in tempo d'està di stamina (stamigna), e le donne vestir di laniglia o cattivello (filaticcio), dovendo durare il lutto per mesi sei. Con che però, alle famiglie de' vassalli, di qualsivoglia stato e condizione che siano i lor padroni, non si permetta portare lutti per morte di persone reali, poichè bastantemente si manifesta il dolore di tanta universal perdita colli lutti de' loro padroni».
Inoltre «che nelle case di lutto i parenti di qualunque grado, ed anche del marito e moglie, non possano tenere le finestre delle stanze chiuse, ma totalmente aperte. Che la sera non si possano tenere lampadi, ma candele, non meno di due, nella stanza ove si ricevono visite; e le donne per la morte dei mariti possano stare in casa soli tre mesi; e per padre e madre, figlio o figlia, nonno o nonna, suocero o suocera, genero o nuora, giorni nove; e per zii, zie e cugini carnali non possano aprir lutto in casa, ma solamente vestirlo per giorni nove.
«Che nelle case di lutto, ancorchè il cadavere sia sopra terra, solamente si possa coprire il suolo della camera, ove le vedove o vedovi ricevono le visite di condoglianza, con mettere li portali (tendine) neri alle porte o finestre, e questo per giorni nove, proibendosi, in qualunque altro lutto, che non sia come sopra, di marito o moglie, li panni neri o morati, senza poterne giammai parare di nero le mura».
E poichè chi più poteva spendere, più largheggiava nella erezione di altari e nella pompa dei ceri innanzi il morto, il bando consentiva un altare e solo dodici lumi; e circa i mortorî: che essi non dovessero sonarsi fuori la parrocchia del defunto o la chiesa della sepoltura, fosse essa d'una confraternita, fosse d'un convento; e che l'associazione ecclesiastica non uscisse dalla cerchia della medesima parrocchia e dei medesimi frati e consocî della confraternita.
«Che le parti ed eredi del cadavere non possano dare a' sudetti regolari e confratelli, che interverranno all'associamento in forza del loro invito, nè costoro ricevere e portare alle mani se non se una candela, che al più non ecceda il peso di once tre: e per qualunque difonto o difonta di qualsivoglia stato, grado e condizione, che fusse, non possa eccedere il numero di cinquanta candele».
A questa lungagnata seguivano le pene ai trasgressori: e le pene erano minacciate con tanta severità che nessuno dubiterà della ferma intenzione del Vicerè di farla finita coi contravventori. Si trattava nientemeno di una multa di 500 scudi ai nobili e di un anno di carcere e di altre pene ad arbitrio di S. E. a qualsivoglia altra persona. Per le donne maritate, la pena sarebbe stata pagata dai mariti; per le vedove, si sarebbe esatta da qualunque dei loro effetti; pei figli di famiglia, dai genitori.
A ben comprendere le inibizioni di questo bando bisognerebbe riportarsi ai vecchi eccessi che turbavano la società, e soprattutto alle teatrali ostentazioni di dolore alle quali grandi e piccoli, madri e figli, mariti e mogli si abbandonavano. Porte, usci, si tingevano in nero; di nero si coprivan le pareti; si capovolgevano seggiole e deschi; sparecchiate si lasciavan le mense; buio pesto regnava nelle stamberghe, nelle camere, nelle sale, rischiarate appena dal debole chiarore di qualche lucerna: e tutto ciò per mesi interi ed anche per anni se per poco la perdita fosse stata di mariti o, in generale, di capi di famiglia.
Le più strane costumanze s'incontravano nei due ceti estremi, la Nobiltà e la bassa gente.
Nella Nobiltà tutto era un apparato di sontuosità che voleva attestare quanto grave fosse stata la perdita. Quale la vita, tale la morte. Lo splendore del palazzo si trasformava nelle gramaglie della chiesa ove i funerali doveano celebrarsi. Molte le chiese che si facevano partecipare, nel medesimo giorno e nelle medesime ore, ai suffragi, con centinaia di messe e con migliaia di rintocchi di campane. Nella chiesa del cadavere, immenso lo stuolo degl'invitati e la resa dei curiosi. Sopra un cataletto a frange d'oro, in abito sfarzoso come per una festa mondana, la fredda salma non istava, come d'ordinario, a giacere, ma seduta quasi per mostrare l'esser suo.
Nel popolino la più comune era quella delle reputatrici, donne prezzolate, che esercitavano il triste mestiere di piangere sui morti, urlando nenie, strappandosi i capelli. Un parroco della città ne fu testimonio pel suo rione, dove la più povera gente grameggiava in mezzo alla più agiata. «Un solo rimasuglio di cantilene, dice il Santacolomba, mi è accaduto sentire qualora m'è toccato d'assistere a ben morire ai pescatori della Kalsa, e mi si dice che tuttora vi sia nelle piccole terre del Regno: reliquia forse delle antiche prefiche».
Nel maggio 1775, nel solito Diario del Villabianca si legge: «Sul cominciare di questo mese cessar vedesi la costumanza di esporsi i cadaveri dei mendicanti nelle pubbliche piazze e contrade della città; cattandovi la limosina pel suffragio delle anime e per la spesarella dei facchini e del feretro li pii confrati dell'Opera della Misericordia. Ciò venne ordinato dal Senato, non solo per dar favore alli confrati della chiesa di S. Matteo del Cassaro ma anche per non funestare i cittadini con quella luttuosa mostra».
La breve notizia è un guizzo di luce nel campo non del tutto esplorato del costume. Come dev'essere stato orribile, andando per la città, vedere nei posti più frequentati, fermi e circondati di curiosi, cataletti, con sopravi figure contraffatte di uomini e di donne in attesa di chi offerisse l'obolo per le spese del seppellimento!...
Chiesa di S.Matteo