Ringrazio Federico Ferlito che ha trovato questo divertente articolo sulle tradizioni festive nostrane...
Questa volta non parlerò delle solite storielle
panormite, ma di Dicembre, mese di grande fervore devozionale
per le feste religiose ma anche pagàno per come viene da noi vissuto. Per il giorno "rà Maruonna", 8 dicembre, si aprono le danze ed i portafogli e già a Santa
Lucia gli occhi cominciano a piangere per le prime perdite al tavolo
verde!
A Natale,
per i cristiani palermitani, si
respira un’aria tutta particolare.
Ricordando i tempi passati, questa festa è
contraddistinta da tre momenti : liturgico, ludico e alimentare.
Le vie ed i mercati, o almeno quel che ne rimane, si
vestono di luci e luminarie, si respira aria di festa e gli addobbi
natalizi rivestono l’ arredamento del paesaggio cittadino.
La cosa che anticamente più richiamava l’attenzione
erano le botteghe di frutta (putìe) sia fresca che secca. A primeggiare erano gli agrumi con i loro colori, sia nostrali che tropicali.
Il lungo periodo di festeggiamenti natalizi anticamente aveva
inizio con la novena che si snocciolava per nove sere dal 29 novembre al
7del mese successivo, per proseguire poi dal 16 al 24
dicembre. Davanti al presepe, i più anziani e le donne della famiglia recitavano le novene.
Alcune famiglie,
le più agiate, ingaggiano per tali novene “u ciaramiddaru”, che bardato con
costumi da pastore, stazionava davanti al presepe e suonava “i
ninnareddi”, insomma un concertino da camera, piffero e zampogna. La
loro esibizione, sempre dietro pagamento, avveniva pure nei
vicoli addobbati a festa e si fermava davanti alle cappellette “parate”
con fronde di “mortella” e arance.
La cena era annaffiata
continuamente dal vino, lo sfincione faceva da padrone, poi seguivano
“carduna”, ”cacuocciuli”, ”vrucculiddi” sempre in “pastedda”
fritti in olio buono. La tradizione continuava con
“baccalaru frittu” e alla “ghiotta”, con salsa di pomodoro, capperi,
uva sultanina, sedano e olive nere.
Le famiglie un po’ più abbienti, reputando questo cibo povero,
preferivano ingozzarsi inoltre col pesce, orientandosi verso il capitone.
A corollario della libagione, si buttava giù “a petrafennula”, o il
buccellato (ù cuccidatu), ciambella ripiena di fichi secchi, o "a
cubbaita" di mandorle e miele cotto, con la “giuggiulena” il nome
dialettale del sesamo.
Si poteva gustare “u sangunazzu”, sangue di
maiale cotto ed addolcito, condito con uva passa e cioccolato coagulato in budello, una vera leccornia. Non si disprezzavano i
“mustazzola”, durissimi dolcetti di zucchero, farina e miele, d’origine
romana. Le nostre nonne preparavano le “sfince” ovvero frittelle
condite con zucchero e miele, talvolta qualcuna ripiena per scherzo con
cotone idrofilo (“mattula”).
Dopo il dolce era d’obbligo un bicchierino di marsala
o di rosolio fatto in casa.
I giochi erano basati per coinvolgere la famiglia. Tutti potevano
giocare “a tummula”, per vincere premi in denaro, ma era
severamente vietata la “zicchinetta”, gioco reputato altamente azzardoso, quindi
da goderselo in ambienti non familiari, evitando contese. Questo il periodo pre-natalizio. Del post parto ne parlerò nel 2014
perché dovrò smaltire gli abusi appena raccontati...