mercoledì 4 luglio 2012

IL LUTTO DI UNA VOLTA

[STORIE] Dalle pagine del Pitrè, nel suo libro "La vita in Palermo cento e più anni fa", vediamo come si affrontava la questione relativa al lutto a quell'epoca iniziando dal bando del vicerè in proposito :
«Per le morti delle persone reali gli uomini possano portare le giamberghe nere di panno o bajetta, ed in tempo d'està di stamina (stamigna), e le donne vestir di laniglia o cattivello (filaticcio), dovendo durare il lutto per mesi sei. Con che però, alle famiglie de' vassalli, di qualsivoglia stato e condizione che siano i lor padroni, non si permetta portare lutti per morte di persone reali, poichè bastantemente si manifesta il dolore di tanta universal perdita colli lutti de' loro padroni».
Inoltre «che nelle case di lutto i parenti di qualunque grado, ed anche del marito e moglie, non possano tenere le finestre delle stanze chiuse, ma totalmente aperte. Che la sera non si possano tenere lampadi, ma candele, non meno di due, nella stanza ove si ricevono visite; e le donne per la morte dei mariti possano stare in casa soli tre mesi; e per padre e madre, figlio o figlia, nonno o nonna, suocero o suocera, genero o nuora, giorni nove; e per zii, zie e cugini carnali non possano aprir lutto in casa, ma solamente vestirlo per giorni nove.
«Che nelle case di lutto, ancorchè il cadavere sia sopra terra, solamente si possa coprire il suolo della camera, ove le vedove o vedovi ricevono le visite di condoglianza, con mettere li portali (tendine) neri alle porte o finestre, e questo per giorni nove, proibendosi, in qualunque altro lutto, che non sia come sopra, di marito o moglie, li panni neri o morati, senza poterne giammai parare di nero le mura».
E poichè chi più poteva spendere, più largheggiava nella erezione di altari e nella pompa dei ceri innanzi il morto, il bando consentiva un altare e solo dodici lumi; e circa i mortorî: che essi non dovessero sonarsi fuori la parrocchia del defunto o la chiesa della sepoltura, fosse essa d'una confraternita, fosse d'un convento; e che l'associazione ecclesiastica non uscisse dalla cerchia della medesima parrocchia e dei medesimi frati e consocî della confraternita.
«Che le parti ed eredi del cadavere non possano dare a' sudetti regolari e confratelli, che interverranno all'associamento in forza del loro invito, nè costoro ricevere e portare alle mani se non se una candela, che al più non ecceda il peso di once tre: e per qualunque difonto o difonta di qualsivoglia stato, grado e condizione, che fusse, non possa eccedere il numero di cinquanta candele».
A questa lungagnata seguivano le pene ai trasgressori: e le pene erano minacciate con tanta severità che nessuno dubiterà della ferma intenzione del Vicerè di farla finita coi contravventori. Si trattava nientemeno di una multa di 500 scudi ai nobili e di un anno di carcere e di altre pene ad arbitrio di S. E. a qualsivoglia altra persona. Per le donne maritate, la pena sarebbe stata pagata dai mariti; per le vedove, si sarebbe esatta da qualunque dei loro effetti; pei figli di famiglia, dai genitori.
A ben comprendere le inibizioni di questo bando bisognerebbe riportarsi ai vecchi eccessi che turbavano la società, e soprattutto alle teatrali ostentazioni di dolore alle quali grandi e piccoli, madri e figli, mariti e mogli si abbandonavano. Porte, usci, si tingevano in nero; di nero si coprivan le pareti; si capovolgevano seggiole e deschi; sparecchiate si lasciavan le mense; buio pesto regnava nelle stamberghe, nelle camere, nelle sale, rischiarate appena dal debole chiarore di qualche lucerna: e tutto ciò per mesi interi ed anche per anni se per poco la perdita fosse stata di mariti o, in generale, di capi di famiglia.
Le più strane costumanze s'incontravano nei due ceti estremi, la Nobiltà e la bassa gente.
Nella Nobiltà tutto era un apparato di sontuosità che voleva attestare quanto grave fosse stata la perdita. Quale la vita, tale la morte. Lo splendore del palazzo si trasformava nelle gramaglie della chiesa ove i funerali doveano celebrarsi. Molte le chiese che si facevano partecipare, nel medesimo giorno e nelle medesime ore, ai suffragi, con centinaia di messe e con migliaia di rintocchi di campane. Nella chiesa del cadavere, immenso lo stuolo degl'invitati e la resa dei curiosi. Sopra un cataletto a frange d'oro, in abito sfarzoso come per una festa mondana, la fredda salma non istava, come d'ordinario, a giacere, ma seduta quasi per mostrare l'esser suo.
Nel popolino la più comune era quella delle reputatrici, donne prezzolate, che esercitavano il triste mestiere di piangere sui morti, urlando nenie, strappandosi i capelli. Un parroco della città ne fu testimonio pel suo rione, dove la più povera gente grameggiava in mezzo alla più agiata. «Un solo rimasuglio di cantilene, dice il Santacolomba, mi è accaduto sentire qualora m'è toccato d'assistere a ben morire ai pescatori della Kalsa, e mi si dice che tuttora vi sia nelle piccole terre del Regno: reliquia forse delle antiche prefiche».
Nel maggio 1775, nel solito Diario del Villabianca si legge: «Sul cominciare di questo mese cessar vedesi la costumanza di esporsi i cadaveri dei mendicanti nelle pubbliche piazze e contrade della città; cattandovi la limosina pel suffragio delle anime e per la spesarella dei facchini e del feretro li pii confrati dell'Opera della Misericordia. Ciò venne ordinato dal Senato, non solo per dar favore alli confrati della chiesa di S. Matteo del Cassaro ma anche per non funestare i cittadini con quella luttuosa mostra».
La breve notizia è un guizzo di luce nel campo non del tutto esplorato del costume. Come dev'essere stato orribile, andando per la città, vedere nei posti più frequentati, fermi e circondati di curiosi, cataletti, con sopravi figure contraffatte di uomini e di donne in attesa di chi offerisse l'obolo per le spese del seppellimento!...
Chiesa di S.Matteo

4 commenti:

  1. Il rito funebre siciliano, come descritto da Pitrè, ci fa ricordare, ancora una volta, le nostre origini e la nostra appartenenza al mondo greco. Nella Grecia classica, le lamentatrici erano donne estranee alla famiglia del defunto che intonavano il treno, il canto funebre, per accompagnare l'anima del morto. Famoso è il canto funebre che la stessa Cassandra intona per la sua morte ancor prima di morire. Commovente come descritto nell'Agamennone di Eschilo. La cerimonia del lutto era più sfarzosa quanto più ricca era la famiglia del defunto. Si offrivano libagioni ai parenti e le donne urlavano e si strappavano le vesti graffiandosi le carni. Palermo greca e nascosta.

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  2. Un proverbio recita: Chi muore giace, chi resta si da pace. Ma in quei tempi, il morto sì, giaceva, ma chi restava non aveva pace, dovendo preoccuparsi, scrupolosamente, di tutte le usanze ed obblighi che tale avvenimento comportava!

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    1. Mi viene un pensiero; e se la gente, durante periodi di forte crisi,anche se mossa a pietà ma impossibilitata a dare un obolo..quanto rischiava di stare per strada il cadavere? M. R.

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  3. Il culto per i defunti é una tradizione praticata sicuramente sin da quando l'essere umano ha avuto coscienza della importanza della morte, ed i suoi antichi riti funebri, conosciuti sino ai nostri giorni dimostrano, l'effettiva sensibilità nei confronti del trapasso all'aldilà di un caro familiare.Amore religioso ed amore umano vivono rispettivamente uniti nella usanza tramandata per rispettare la creazione del corpo umano. Molti altri aneddoti popolari si potrebbero aggingere al racconto storico tipo il pranzo con la minestrina in brodo della carne bollita in bianco, ecc. . V.Z.

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