mercoledì 30 maggio 2012

LE TREDICI VITTIME... Cronaca di una barbàrie

[STORIE] Per chiudere il cerchio sugli argomenti della recente passeggiata "Dalla Gancia alle barricate", vediamo in questo post cosa accadde, dopo i fatti della Gancia, ai tredici palermitani fatti prigionieri, i quali, senza un processo, e senza nemmeno una reale sentenza, vennero mandati al martirio sabato 14 Aprile del 1860...
La fonte da cui sono tratte le seguenti notizie è un librettino dal titolo "La rivolta della Gancia" (di M.Ingrassia, ediz. L'Epos), che dà un quadro molto dettagliato e agghiacciante di quelle giornate.
I tredici sventurati furono condotti dal Castello a Mare, dove erano tenuti prigionieri, a pochi passi da lì, presso un bastione della porta S.Giorgio (per dare un'idea, tra la chiesa di S.Giorgio dei Genovesi e l'attuale piazza XIII vittime).
I condannati vennero condotti con un velo nero sul viso, scortati dai soldati borbonici e da tredici "accompagnatori" che li sorreggevano, presi a caso tra la gente per strada. Poi, giunti al luogo dell'esecuzione, furono fatti inginocchiare, e davanti a loro stavano tre file di soldati, composte ognuna da tredici unità. Nessuno dei condannati versò lacrime...
Al segnale di far fuoco, la prima fila sparò e si ritrasse. Poi fu la volta della seconda fila a sparare. Incredibilmente, uno dei condannati, Sebastiano Camarrone, era ancora illeso dopo due raffiche, cosa che secondo le allora leggi di guerra, gli doveva garantire salva la vita. Ma non fu così. Avvicinatisi a lui, gli ufficiali borbonici, gli strapparono dal collo un crocifisso e un sacchettino con oggetti religiosi che teneva al collo, poi diedero l'ordine di sparare anche alla terza fila, che ultimò l'eccidio...
Da lontano, una folla di gente, probabilmente parenti dei giustiziati, urlava, ma non fu fatta avvicinare al luogo della strage. A causa dei proiettili ricoperti di cera, si sprigionarono delle fiamme che potevano ardere i corpi già defunti dei tredici, e allora vennero fatte avvicinare alcune donne con dei secchi d'acqua per spegnere il fuoco che rischiava di espandersi.
Per i cadaveri erano state preparate quattro casse di legno, dove vennero ammassati a tre a tre i corpi, ma nell'ultima dovettero introdurne quattro, per il numero dispari dei caduti. Infilato a forza anche l'ultimo corpo, col sangue che cadeva giù dai carretti dove furono caricate le casse coi tredici cadaveri, alle truppe napoletane fu ordinato di evitare il seppellimento a S.Spirito, in quanto per raggiungere quel cimitero, il corteo avrebbe dovuto attraversare in pratica tutta la città, col rischio di disordini.

Obelisco a piazza XIII Vittime - 1
Si decise allora di dare sepoltura ai tredici martiri al cimitero dei Rotoli, dove furono gettati in un carnaio comune. Fu solo 50 anni dopo, nel 1910, nel 50° anniversario dei fatti garibaldini, che il comune di Palermo riesumò le ossa dei tredici e le tumulò a S.Spirito assieme ai resti di Francesco Riso, uno dei capirivolta della Gancia, dopo un funerale che non era stato mai celebrato...
Tra le vittime fucilate quel giorno, c'era anche Giovanni Riso, padre di Francesco...
Nel 1883, 23 anni dopo, fu eretto un obelisco, realizzato dallo scultore Salvatore Valenti, con incisi i nomi dei condannati di quel 14 Aprile, ma che non si trova nel punto esatto dove avvenne l'esecuzione, in quanto la zona è stata stravolta e modificata nel corso degli anni, con l'abbattimento delle mura di porta S.Giorgio e la costruzione della piazza che si chiama appunto, piazza XIII vittime...
Una prima lapide, a ricordo dei caduti, era stata apposta al portale murato della chiesetta del Castello a Mare, poi demolita.
Ma ecco i nomi dei martiri, a perenne memoria di quel giorno infame :
BARONE MICHELANGELO (30 anni)
CALANDRA GAETANO (34 anni)
CAMARRONE SEBASTIANO (30 anni)
CANGERI CONO (34 anni)
COFFARO ANDREA (60 anni)
CUCINOTTA DOMENICO (31 anni)
DI LORENZO NICOLo' (32 anni)
FANARA MICHELE (22 anni)
RISO GIOVANNI (58 anni)
TERESI GIUSEPPE (28 anni)
VALLONE LIBORIO (44 anni)
VASSALLO PIETRO (40 anni)
VENTIMIGLIA FRANCESCO (27 anni)
Il libro da cui è tratta la cronaca della fucilazione
La prima lapide sul portale della chiesa del castello a Mare
 
Obelisco a piazza XIII Vittime -2


lunedì 28 maggio 2012

DALLA GANCIA ALLE BARRICATE... Una pagina cruciale del Risorgimento palermitano

A richiesta di tante persone, che non erano presenti alla prima passeggiata organizzata da questo gruppo, lo scorso dicembre, si è svolto, domenica 27 Maggio, un percorso simile a quello, dal titolo "Dalla Gancia alle barricate". 152 anni dopo, si sono rivissuti, nei luoghi garibaldini, i momenti cruciali di quella giornata (il 27 Maggio del 1860 cadde pure di domenica), nonchè gli avvenimenti che precedettero quel famoso Maggio, cioè la rivolta della Gancia del 4 Aprile 1860 e la clamorosa fuga di due patrioti, Patti e Bivona, cinque giorni dopo l'insurrezione, dalla "buca della salvezza". 
Gli scontri alla Gancia in una stampa d'epoca

Cortile della Gancia - Il punto di osservazione dei soldati borbonici
Cortile della Gancia - Il punto di osservazione dei patrioti
Cortile della Gancia - Lapide che ricorda i fatti del 4 Aprile 1860


Dalla drammatica mattinata del 4 Aprile, conclusasi in modo tragico per molti patrioti, tra cui Francesco Riso, il caporivolta, con la rievocazione degli scontri nel cortile della Gancia, sino al piano della Cattedrale, per parlare di bombardamenti borbonici e barricate, l'itinerario si è snodato per lo più nei luoghi e nei momenti più significativi di quel 27 Maggio, da piazza Rivoluzione, con l'arrivo delle truppe garibaldine dopo la furibonda battaglia sul ponte dell'Ammiraglio, al palazzo Oneto di via del Bosco, offerto dal suo nobile proprietario come ricovero per i feriti (tra cui il col.Tukory che vi morirà), fino alla zona Albergheria/Porta di Castro/Piazzetta delle Vittime, quartieri saccheggiati e devastati dai soldati borbonici in ritirata verso le caserme del palazzo reale, nei cui pressi un cippo a memoria di 9 palermitani fucilati, ci ricorda la brutale rappresaglia.
L'itinerario si è anche arricchito di aneddoti e testimonianze "indirette" di storia vissuta in quei giorni da alcune famiglie palermitane, presenti nei tragici luoghi del 1860...
Ma eccovi di seguito, la "cronistoria" della mattinata, con le foto di Francesca e Antonella, che ringrazio qui per il loro contributo...
Il ritrovo del gruppo a Palazzo Steri
Il gruppo si avvia verso la Gancia da Via IV Aprile
La rivolta della Gancia, nel cortile dove avvennero gli scontri
Sedata nel sangue la rivolta, si va verso Piazza Magione
A Piazza Magione, tra aneddoti de "Il Gattopardo" e altro...
A Piazza Rivoluzione, dove arrivano le truppe garibaldine
Palazzo Oneto, il ricovero dei feriti e la drammatica morte del Tukory
I saccheggi borbonici rievocati tra Albergheria e Porta di Castro
Il gruppo si avvia verso Piazzetta delle Vittime
Un brutale atto di rappresaglia a Piazzetta delle Vittime
Bombardamenti, barricate e foto del 1860... alla Cattedrale
Una piccola appendice la dedico alla foto della famosa campana della Gancia, che si trova nel chiostro del convento adiacente alla chiesa (oggi sede dell'Archivio), e che fu suonata disperatamente da Francesco Riso, per provare a far accorrere i palermitani a sostenere la rivolta del 4 Aprile, ma inutilmente...
La campana della Gancia
...e al piccolo monumento di Piazzetta delle Vittime, "vittima" anch'esso dell'incuria della gente e degli amministratori comunali (per fortuna nella foto non si vede la spazzatura attorno)...
Grazie a tutti i partecipanti che con la loro attenzione e la loro simpatia hanno reso questa rievocazione più bella ed avvincente...

lunedì 21 maggio 2012

RICORDI DI BORGATA

[STORIE] Gli amici Grazia Nobile e Pippo Visconti scrivono oggi per noi testimonianze di come si viveva nelle borgate di un tempo. I loro ricordi dei giorni d'infanzia sono legati al quartiere, dove ci si conosceva tutti, si stava quasi sempre in casa (magari per ristrettezze economiche) ed allora anche l'arrivo di venditori ambulanti o altro, veniva vissuto come una piccola festa...
Ringraziandoli per il loro contributo al Blog, vi invito a leggere quanto segue :

IL POSTINO DELL'ACQUASANTA
Fra le tante cose vissute da piccola, che riaffiorano nella mia mente , ce n'è una in particolare che ricordo con un sorriso. Abitavo nella zona dell'Acquasanta, in una stradina... Ci conoscevamo tutti, a prescindere che nella stessa palazzina, costruita dal mio bisnonno, eravamo tutti parenti. La sera era un riunirsi di zie, cugini e parenti vari e si trascorreva il tempo a parlare, a scherzare, a raccontare...
Amavo di giorno affacciarmi al balcone a primo piano e piccolina com'ero, ero sempre incuriosita da tutto ciò che avveniva nella strada. L'appuntamento fisso dell'uomo grassoccio che veniva da Monreale a vendere il suo pane e che mi faceva un pò paura (aveva un "panzuni" enorme), gridando : "PANI RI FURMENTU !" Poi c'era quello che vendeva le arancine (uso apposta il femminile perchè per noi palermitani si chiamano così) e notavo che aveva una grossa palla dietro il collo... Il fruttivendolo che "abbanniava" le sue prelibatezze, il pescivendolo al quale mia madre si rivolgeva con attenzione per avere del pesce fresco, il tizio che veniva da Carini a vendere il suo olio e il vino. Persino un gioielliere che veniva a domicilio, gentilissimo e sempre pronto a far vedere il suo oro. Ma una cosa in particolare era indimenticabile : l'arrivo del postino.
Cominciava dalla punta della strada a gridare i vari cognomi per consegnare la posta e ad ogni cognome faceva una piccola satira.
Quando arrivava per consegnare la nostra posta (ci chiamiamo Nobile) diceva così : "A MEGGHIU VITA A FANNU I NOBILI"... E mia madre : "Ah, c'è posta pi mmia ??" E lui : "Certo signora, mica a fazzu iu a megghiu vita..." Poi era la volta dei miei zii che abitavano insieme a noi, di cognome Visconti : "MI MANCIASSI UN VISCUOTTU..." Era poi la volta dei Lo Bianco (sempre zii miei): "STA' IRNATA MI MANCIU PASTA IN BIANCU PICCHI' STAIU MALI DI STOMACU..." E così ad accorrere le mie zie Lo Bianco, ma il problema è che le zie Lo Bianco erano in tante e così si creava un pò di baldoria per capire a chi fosse indirizzata la posta.
Penso che quest'uomo faceva il suo lavoro con tanto amore se aveva voglia di soffermarsi e per ogni famiglia inventare una frase. O forse perchè ai tempi avevamo tutti più voglia di sorridere e più tempo per rapportarci col prossimo ????

A conclusione di questo graziosissimo racconto dell'amica Grazia, mi chiedo : Ma quando il postino recapitava bollette o tasse, si rideva lo stesso o lo si annaffiava con un bel "cato" d'acqua ?
[Racconto scritto da Grazia N.]
"QUELLO" DEL VINO
All’Acquasanta, oltre la piazza che dalla sabbia scura della spiaggia si apriva salendo fino alla chiesa, su per i vicoli che ancora oggi si intrecciano fin quasi alle falde di Monte Pellegrino, ricordo due taverne quasi sempre aperte.
La prima faceva anche da latteria, e a mezzogiorno qualche muratore, invece della solita mafalda divorata all’ombra di un muretto, poteva mangiarci un piatto di fave o due uova fritte accompagnate da un bicchiere.
Quanto a me bastava scendere giù con la bottiglia, fare settanta metri, dire che mi mandava mio padre e farla riempire dalla botte, ma non quella grande, l’altra, quella col vino buono, forse l’unico tra quelli che spacciava u zù Vanni.
In estate a volte, per un po’ di ghiaccio, mi portavo appresso una pentola di alluminio, gli dicevo sempre che mi mandava mio padre e lui con lo scalpellino ti staccava da un grosso blocco quattru irita, quattro dita di ghiaccio, con i bambini tutt’ intorno a saltare tra le schegge di acqua ghiacciata che schizzavano in tutte le direzioni.
- “Pi sta vota !”-per questa volta, diceva per fare intendere a tutti che si trattava di una cortesia particolare; poi tornava a coprire il ghiaccio con le coperte di lana per farlo durare più a lungo, a raffreddare le birre e le gazzose che rivendeva.
L’altra taverna era più lontana, appena appena per la verità, ma era già dopo il ricovero, il rifugio antiaereo chiuso e sigillato ma ancora in piedi; era una montagnola di calcestruzzo ripida e scivolosa per le nostre arrampicate di ragazzi e naturalmente sede di “spirdi”,di fantasmi, e passarci di sera da soli era un brivido che nessuno di noi amava provare.
Una sera tuttavia mi ci avventurai da solo per un litro di bianco di Alcamo, e sulla strada del ritorno, proprio nei pressi del ricovero, una figura scura si staccò dal muro barcollando e dirigendosi verso di me (o verso il mio vino ?).
- Lo sai come si impara a correre ?
Così, da soli, di sera e con una bottiglia di vino da portare in salvo a casa.
Col fiatone per la corsa e per lo spavento raccontai che un fituso di fantasma voleva impadronirsi di me e della bottiglia ,e naturalmente mio padre proclamò che in fondo gli spiriti che frequentano le taverne non fanno mai del male ai ragazzi, ma soprattutto non possono competere con loro nella corsa.
Anni dopo, e stento a dirti che ne erano passati solo una decina tanto il mondo e il quartiere erano cambiati, il vino ce lo portavano fino in casa; veniva uno da Partinico, col suo furgone Fiat 850T bianco carico di fiaschi, di pane di paese e di bidoni di vino, ma per quanto mi sforzi non riesco a ricordare come si chiamasse, perché per tutti era chiddu ru vinu, quello del vino. Suonava il campanello da giù, e prima che qualcuno rispondesse gridava : - Vinooo !
- Mammaaa, c’è "quello" del vino !
Saliva con un bidone e un grosso imbuto d’alluminio - “Buonasera signora !” e “Ciaoo” a noi bambini - e iniziava a riempire le bottiglie; ma per quanto ci mettesse attenzione nel travasarlo, sempre il vino fuoriusciva schiumoso, lungo la bottiglia e fino allo straccio sottostante, bagnando il pianerottolo, che restava a lungo odoroso fino ad una nuova pulizia della scala.
Di lui ricordo il giorno che venne tutto vestito a lutto, il viso pallidissimo, tanto che mia madre gli chiese chi gli fosse morto;
- Mio fratello ! - rispose, e alla domanda sul come :
- Ci spararu, signora, ci spararu !
Poco tempo dopo partì per l’ America, e non lo vedemmo mai più...
[Racconto scritto da Pippo V.]
Sono affreschi della vita semplice di una volta, vissuta, soprattutto dai bimbi, con tanta spensieratezza... 
Il porticciolo dell'Acquasanta

lunedì 14 maggio 2012

LA LEGGENDA DEL COCCODRILLO

[ANEDDOTI] L'amico Angelo Trapani, che ringrazio, ha voluto dare un nuovo contributo a questo Blog, scrivendo su una leggenda molto famosa del nostro centro storico...
Nel mercato della Vucciria, all’interno di quello che una volta era un negozio di generi alimentari presso la via Argenteria, vi è tutt'ora appeso, nel soffitto, un grosso coccodrillo imbalsamato. L'animale, lungo oltre tre metri, con le enormi fauci spalancate, incuteva timore a chiunque si trovasse di passaggio nei suoi pressi. Era per i bambini una visione che dava gioia e timore allo stesso tempo...
Leggenda popolare vuole che il coccodrillo abitasse la fontana che si trova nella piazza Caracciolo, alla Vucciria. Fontana che un tempo si credeva alimentata dal flusso delle acque del sottostante fiume Papireto. Quell'enorme bestione, si narra, era nativo del lontano Nilo ma non si sa bene come, in qualche modo, riuscì ad arrivare via mare fin dalle nostre parti, e risalito il fiume Papireto trovò in quella fontana comodo rifugio per la sua esistenza. Il grosso coccodrillo, però, non si nutriva solo d'acqua ma aveva bisogno pure di "sostanza"...
Fu così che prese l'abitudine di divorare tutti quei bambini che si attardavano a giocare oltre le ore del tramonto nei dintorni. Nel quartiere, ben presto, si diffuse la paura che la bestia potesse divorare tutti i "picciriddi" e così alcuni tra i più coraggiosi giovani della Vucciria un giorno decisero di tendergli una trappola. Alle ore del tramonto, appena il coccodrillo si affacciò dal bordo della fontana in cerca della  sua vittima, in cinque lo agguantarono per la coda. Il possente animale si dimenava, e mentre in quattro tentavano di tenerlo fermo, il più lesto tra i giovani cosaggiosi fece in tempo ad infliggergli un fendente con un grosso coltello. Il giovane spinse con tutta la sua forza trafiggendo le dure carni dell'animale. E dopo che la lama penetrò sotto la gola, con tutta la sua forza continuò a spingere fino ad arrivare all'altezza dello stomaco. Il feroce animale, squartato, cadde esanime in una pozza di sangue e mentre tutti osservavano la scena, il pianto di una bambina si udì provenire dall'interno del suo stomaco. Il coccodrillo era ormai immobile per terra e fu allora che il giovane infilò le sue forti braccia dentro le carni insanguinate dell'animale, afferrando con le sue mani il corpicino di una bimba, ancora viva, che subito venne estratta fuori. La bambina miracolosamente si salvò e alla Vucciria fu festa... "Musica, balli e ciumi ri vinu" scorrevano per tutta la via dell'Argenteria, dalla fontana fino al mare !
La lungimiranza dell'amico Vincenzo Amodeo, odierno proprietario dell'immobile, che ringrazio, ha permesso che dopo 40 anni il coccodrillo della Vucciria,  restaurato, tornasse finalmente a far parlare di se da quel soffitto di via Argenteria 45, pronto a intimorire ogni malintenzionato.
Magari le cose non saranno andate proprio così... Chissà.
Sta di fatto che il coccodrillo è divenuto, negli ultimi 50 anni, una vera e propria mascotte del quartiere, o meglio, di ciò che "era" la Vucciria (purtroppo), attirando curiosi e turisti, nonchè famiglie con bambini, dentro quella piccola bottega.
Oggi, purtroppo, a Palermo i coccodrilli sono ben altri, e non solo alla Vucciria...
Il coccodrillo restaurato e appeso

(PS. Testo e foto di Angelo Trapani)

lunedì 7 maggio 2012

UNA "COMPAGNIA" NON PROPRIO GRADEVOLE...

[STORIE] Oggi Federico ci parla di una "Compagnia" che doveva confortare i condannati, spesso ottenendo l'effetto contrario...
Nella passeggiata storica dedicata ad esoterismo e Inquisizione (lo scorso 22 Gennaio), si era parlato di streghe, torture ed inquisizione, che potevano a tratti sembrare fantasie maniacali, ma che purtroppo erano le testimonianze tramandate di fatti e misfatti avvenuti a Palermo in altri tempi.
In alcuni casi durante le argomentazioni siamo apparsi crudeli e abbiamo quasi terrorizzato i nostri ascoltatori. Data l’esiguità del tempo, siamo stati volutamente superficiali su alcuni punti riproponendoci di approfondirli successivamente.
Difatti abbiamo parlato poco delle procedure, dei personaggi di giustizia, delle istituzioni ausiliarie per la conclusione di un ben riuscito spettacolo di morte nel rispetto di una splendida scenografia. Percorrendo via Alloro, deviando su vicolo della Salvezza, ci si ritrova in Piazzetta dei Bianchi... Proprio lì abbiamo fatto un piccolo intervento quasi sufficiente per identificare i personaggi. L’ambiente era soft, una piazzetta racchiusa fra antiche mura fra cui risplende un bel prospetto bianco tirato a lucido, un edificio austero con interni meravigliosi, vecchia sede di una Compagnia del "buon morire", definibile più Setta che Compagnia. Il poveraccio che finiva fra le grinfie di questa era segnato definitivamente, potendosi considerare più là che qua, avendo ormai raggiunto la terz'ultima tappa della propria vita prima di conoscere da vicino il boia... La cosiddetta Compagnia dei Bianchi, costituita da soli nobili, era essenzialmente il braccio infame delle amministrazioni giudiziarie dell’epoca, i confrati avrebbero dovuto lenire l'angoscia del morituro, ma effettivamente ne carpivano notizie che la tortura non aveva saputo cavare, e che immancabilmente riferivano agli inquirenti, affinchè questi le potessero utilizzare per cogliere nella propria rete altri colpevoli da condannare. In realtà, quindi, erano degli aristocratici adibiti a fare gli spioni, nel contempo esecutori di raffinate torture psicologiche. Tralasciando le contorte procedure per cui il condannato veniva dichiarato tale, limitiamoci a parlare della “presa in carico” e del “santo trattamento liberatorio”...
Il condannato, giudicato dalla giustizia ordinaria o dalla Santa Inquisizione, era consegnato al Presidente di Giustizia che mandava il “biglietto d’avviso” alla Compagnia, e da quell’istante cominciavano le ulteriori disgrazie per il poveraccio.
I confrati vestiti con saio bianco e cappuccio calato sul viso, per tre giorni confortavano l’afflitto, si preoccupavano che facesse un’ottima confessione e comunione mentre gli salmodiavano attorno. Analoghe compagnie della morte esistevano ovunque, ma sembra che il rito panormita fosse particolarmente ossessivo e impregnato di sadismo.
Sicché varie volte, fingendo che fosse giunta l'ora dell'esecuzione, andavano a prelevarlo verso l’alba con i ceri accesi, annunciandosi da lontano al canto del “Miserere” e del “De Profundis”, impiegando ore per percorrere corridoi lunghi solo qualche decina di metri. Quando alla fine aprivano la porta della cella,  avevano modo di accertare con gioia, di essere in parte padroni della morte, potendola facilmente evocare e giocare con essa : il condannato era a terra piangente, oppure svenuto o schiumante di paura. Non restava che rianimarlo e chiedergli se fosse o no rimasto edificato dalla esperienza fatta, e se ritenesse di aver fatto una preparazione al gran passo. Evidentemente non c’era neanche un pizzico di bontà nel loro operare, era soltanto sublimazione della malvagità nell’esternare il loro potere nei confronti di un ammasso di carne destinato al macello.
Terminate le prove generali, il giorno dell’esecuzione i Bianchi si mischiavano nella scenografia dello spettacolo, ma sempre in primo piano, accompagnando fino al patibolo il disgraziato, quasi per respirare l’esalazione dell’ultimo respiro, sicuramente purificato dal loro divino operato !
Nei tre giorni che precedevano l'esecuzione, i nobili confrati erano anche investiti di una sorta di "immunità"... Infatti in quelle 72 ore divenivano pressocchè intoccabili e potevano fare il bello e il cattivo tempo, tutto ovviamente col placet delle istituzioni politiche e religiose...
Non c’era nulla di buono in loro anche quando richiedevano "Diritto di Grazia" il giorno del Venerdì Santo. Sapevano di ottenere la grazia per un condannato a morte, ma erano coscienti di non fare un gran favore allo sfortunato, che non sarebbe stato reso libero ma avrebbe iniziato una vita ben più derelitta della morte a cui era destinato. Nel migliore dei casi avrebbe servito nella flotta imperiale facendo il rematore, godendo al massimo per due anni del trattamento di "frusta", di attacchi di fastidiosi parassiti, della sete, delle infezioni, dello scorbuto. Il graziato in queste condizioni avrebbe trascinato la sua vita per appena due anni, maledicendo il remo, i Bianchi e la Grazia, sperando caldamente di morire in battaglia o di essere preso prigioniero dal turco infedele, magari abiurare e morire tra minori stenti in una galera musulmana...
L'Oratorio dei Bianchi alla Kalsa




 

mercoledì 2 maggio 2012

PALERMO CAPODIMONTE

Messe da parte le discussioni, le polemiche, le critiche ed il dibattito che si è creato, sul blog, e anche altrove, riguardo al precedente post, dove c'era poco da ridere, proviamo oggi a sdrammatizzare e tirare fuori delle chicche di "palermitanità" frequentissime per chi, come il sottoscritto, gironzola nei mercati popolari del centro storico. 
Viva la Vucciria, il Capo e Ballarò...
Dovrei pure scrivere viva l'ignoranza ?
No, non lo scriverò, perchè questa forse, più che ignoranza, è una forma d'arte "involontaria", perciò, come tale, innovativa, ma allo stesso modo, attraente. Ringrazio Nora e Franci per alcune foto fornitemi... Buona visione a tutti !
PS. Il titolo del post proviene non tanto dal latino, ma da una battuta di un venditore ambulante del Capo che tempo facommentava così la scritta su una rivista, "PALERMO CAPUT MUNDI" : "PALERMO CAPODIMONTE... Ma chi beni a diri? A porcellana ?"